Stanotte, 22 novembre, com’è tradizione per la festa di Santa Cecilia, le “pastorali” eseguite dalle bande musicali cittadine hanno dato il via al lungo Natale tarantino. La prima delle caratteristiche nenie natalizie, eseguite dalla banda Lemma e composte composte da autori locali, è stata suonata a mezzanotte in punto davanti a un noto ritrovo in via Pitagora, fra gli auguri, calici di spumante e vassoi di pettole bollenti fatti girare per il folto gruppo di appassionati. Un paio di ore dopo è stato il turno dei complessi bandistici convenzionati con il Comune, “Santa Cecilia” e “Paisiello”, che hanno girato tutti i quartieri. Molto suggestiva la cerimonia della “prima squilla” in cattedrale, con la benedizione delle bande e la prima processione della santa fino alla chiesa di San Giuseppe
Molte le pettolate svoltesi in strada e quelle nelle scuole, per la gioia dei più piccoli.
Si ringraziano per le i immagini il testo e i video tanti tarantini appassionati di tradizioni popolari a Taranto:
Ph e video: Algelo, Pietro, Vanessa, Antonella, Roberto, Sergio, Michele ecc….
La leggenda del giorno di Santa Cecilia
Il giorno di Santa Cecilia, una donna si alzò come di consueto, per preparare l’impasto per il pane. Mentre l’impasto lievitava sentì un suono di ciaramelle, si affacciò e vide i zampognari che arrivavano. Come ipnotizzata da quella melodia scese per strada e si mise a seguire i zampognari per i vicoli della città.
Quando tornò a casa si accorse che l’impasto era lievitato troppo e non poteva più essere usato per il pane, e che nel frattempo anche i suoi figli si erano svegliati e reclamavano la loro colazione.
Senza lasciarsi prendere dalla disperazione, la donna mise a scaldare dell’olio e cominciò a friggere dei pezzettini di pasta che nell’olio diventavano palline gonfie e dorate che piacquero molto ai suoi figli, che con la loro tipica curiosità le chiesero: “Mà, come si chiaman’?”- e lei pensando che somigliavano alla focaccia ( in dialetto detta “pitta”) rispose: “pettel'” (ossia piccole focacce).
Non ancora soddisfatti i figli chiesero: “E ‘cce sont?” – e lei vedendo che erano molto soffici rispose: “l’ cuscin’ du Bambinell” (i guanciali di Gesù Bambino).
Quando finì di friggere tutto l’impasto, scese per strada coi suoi bambini, felici e satolli per offrire le pettole ai zampognari che con la melodia delle loro pastorali avevano reso possibile quel miracolo.
La realtà invece ci dice che:
le donne, per preparare le pettole, si procuravano “u luat” (piccolo panetto di pasta cresciuta, usata come lievito) – si alzavano verso le due di notte per , “trumbà” (impastare) la pasta, operazione che richiedeva tempo e forza di braccia, perché di solito le pettole costituivano il pranzo e la cena e le dosi superavano di molto il chilo di farina, dato che dovevano sfamare famiglie numerose “cu na morr’ di figghije” ( con tanti figli).
Per questo l’impasto si preparava “int’ u limm’” (grande coppa in terracotta smaltata all’interno). Finito di impastare, si lasciava lievitare la pasta coprendo il limmu con una “manta di lana” (una coperta) in un luogo caldo, di solito vicino al camino o vicino “a fracassè” (antica cucina a legna, con caldaia), comunque al riparo da spifferi e correnti d’aria che ne rallenterebbero la fase di lievitazione, determinante per la riuscita delle pettole.
Di stretta competenza di nonne, mamme e zie, la preparazione delle pettole, rende l’attesa della festa un momento di interessata partecipazione e avvicendamento ai fornelli.